Presentazione della mostra personale di Gabriela Spector
Intrecci
Un filo sottile di generazione in generazione
Galleria Vecchia Posta, Brusino Arsizio, 5 maggio 2024
La fotografia in bianco e nero che i visitatori trovano sul bancone fissa in un istante preciso il tempo di cinque generazioni; di cinque donne, cinque madri, cinque figlie. Cinque storie.
Siamo nel 1968; vi compaiono la trisnonna, la bisnonna, la nonna, la mamma e, in fasce, Gabriela Spector. Altre figure femminili le vedete alle pareti della Galleria; ne potete scoprire alcune fuse nel bronzo; in particolare nella polena là nell’angolo, scultura decorativa tipica, di solito scolpita nel legno, issata sulla prua di barche, navi, galeoni, vascelli e piroscafi d’una volta. Quella portata qui nella Galleria è la rielaborazione di un’opera della scultrice di Riva San Vitale, alta quattro metri. Gabriela Spector si è ispirata visitando una delle case, in Cile, del poeta Pablo Neruda, che fra le sue collezioni aveva anche una raccolta di polene.
Si tratta di opere d’arte sinonimi di forza, determinazione, coraggio, libertà, ma anche di gioia e curiosità, nell’affrontare i mari. Requisiti che a Gabriela Spector non mancano; quando affronta la scultura, per cominciare, che è un mestiere difficile, soprattutto quando le opere sono di grandi dimensioni, come quelle esposte nei primi mesi dell’anno al Quartiere Maghetti di Lugano; “un lavoraccio”, per usare le sue parole: prima l’idea, poi il disegno, la struttura in ferro, il gesso, la modellatura, infine la fusione. Giornate e giornate.
Parlando con lei si capisce che quella foto di famiglia in bianco e nero pèrmea, in qualche maniera – e non del tutto in modo consapevole – il lavoro dell’artista; da sempre disegna, scolpisce, dipinge e raffigura la donna, alla scoperta soprattutto della profondità del rapporto tra madre e figlia.
Una relazione davvero singolare, ben diversa da quella tra madre e figlio maschio. Vi parla di questa differenza sostanziale, con parole chiare, Silvia Vegetti Finzi – autorevole psicologa italiana, ospite della RSI di recente in un incontro pubblico – nel testo che trovate in Galleria, scritto appositamente per l’artista.
Spector è nota su scala internazionale – ed è un onore per la noi averla qui – soprattutto come scultrice; ha lavorato il marmo, il bronzo, la terracotta, materiali avvicinati in fonderie e accademie italiane, al suo arrivo dell’Argentina. Negli ultimi decenni è riconosciuta anche come pittrice. Il suo ricco percorso professionale trova da sempre basi solide nel disegno, che le è indispensabile per arrivare alla forma. Ne trovate begli esempi anche nella cartella sul bancone della Galleria.
La ricerca sulla teoria e sul mondo del colore è costante, anche nell’insegnamento al CSIA di Lugano. A volte è ispirata da fotografie professionali, in cui appaiono sua madre e sua figlia; ma, nella traduzione dell’immagine, prima disegnata e poi dipinta, la madre scompare; per riapparire, alle spalle della figlia, quasi un’ombra, in una sorta di atteggiamento protettivo, magico; una genitrice che, avendo perduta la dimensione reale della fotografia, può diventare una madre
interiore Ma torniamo a guardare la fotografia.
Le cinque donne ritratte hanno alle spalle pagine di vita non sempre serene. L’esistenza della bimba in fasce, fino all’adolescenza, coincide con un periodo buio della storia dell’Argentina: al governo del suo paese c’era una giunta militare. Alla facoltà di Belle Arti di Tucumàn, qualche anno dopo, durante gli studi superiori, tornata la democrazia, Gabriela Spector ha trovato insegnanti che furono cacciati dalla dittatura; ai quali è tuttora riconoscente, essendo stati capaci di coltivarne il talento.
Le donne più vecchie di questa immagine, con altri famigliari, in quanto di stirpe ebraica, furono perseguitate durante la seconda guerra mondiale e dovettero fuggire dall’Europa. Guardiamo a questa fotografia con rispetto, pensando alla tragedia che in un modo o nell’altro ci coinvolge in questi mesi, confrontati, come siamo, alle vittime dei conflitti in corso.
Eccoci, infine, agli intrecci, che danno il titolo alla mostra; sono riferiti ai fili sottili che, di generazione in generazione, legano le emozioni della vita di ciascuno, piacevoli o meno; il pubblico li ritrova cuciti su alcuni dipinti alle pareti; ma, essendo non lineari per natura, gli intrecci diventano grovigli e riflettono sovente le difficoltà nel comunicare, le emozioni contrastate, così comuni anche nei rapporti intimi e affettivi.
Il primo intreccio, quello all’origine di tutti gli altri, assume un altro nome: si chiama abbraccio, ricorda Gabriela Spector. Lo riceve l’essere umano, maschio o femmina che sia, appena venuto al mondo, dalla propria madre.
Galleria Vecchia Posta
Brusino Arsizio, 5 maggio 2024